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I ducati di Spoleto e Benevento Perchè Langbardland parla di Longobardi senza dedicarsi ai ducati del sud Italia? Non è certamente per razzismo e, proprio per non correre il rischio di strumentalizzazioni, preferiamo lasciare la parola agli storici che hanno trattato quella che impropriamente, come avrete modo di leggere continuando la lettura, è conosciuta come "Longobardia Minor". Buona lettura!
Che se i Duchi anche minori osavano spesso di venire a cozzo armato col Re, ciò molto più era facile ai Duchi di grande Stato e specialmente a quei due potentissimi di Spoleto e Benevento. Anzi di questi due ducati può dirsi che già gran tempo innanzi alla disfatta del Regno formassero piuttosto due Stati a parte, che non due membri del Regno Longobardo. La successione di questi Duchi spesso facevasi col solo consenso dei Grandi o contrastavasi fra i pretendenti senza che il Re se ne intramettesse.Così, fin dai tempi di Re Agilulfo, essendo morto Ariolfo Duca di Spoleto, i due figli del suo predecessore Faroaldo si disputarono coll’armi il principato, il quale rimase al vincitore Teodelapio; né si sa che il Re vi interponesse la sua autorità. Anzi i Re stessi pareano talvolta considerare come stranieri i due ducati. Del che abbiamo parecchi argomenti significantissimi nel corpo delle leggi longobarde. In primo luogo, nei Prologhi stessi delle varie leggi di Liutprando e di Rachis, dove il Re legislatore espressamente avverte d’aver composte le leggi coll’intervento e consenso di tutti i suoi giudici, cioè dei Duchi e degli altri Grandi, Dell’Austria, della Neustria e della Tuscia [1], non fa mai niuna menzione di quel di Spoleto e di Benevento, non altrimenti che se questi fossero fuori del Regno: eppure in negozio di sì gran momento pare che essi avrebbero dovuto aver parte e menzione principalissima. Di più, in alcune leggi, come nella 61a e nella 108a di Liutprando, si parla dell’Austria, della Tuscia, della Neustria adattando la legge alle varie condizioni di queste province; ma si tace di Spoleto e di Benevento, quasi che a queste la legge non dovesse punto provvedere. Vi sono, è vero, due trattati del Codice longobardo, e sono i soli, in cui si fa parola espressa di quei due Ducati, cioè la legge 88a di Liutprando intorno ai servi fuggitivi, e la 9a di Rachis sopra i messi spediti in estere contrade. Ma la prima è solo per dire che, se il servo è fuggito nello Spoletano o nel Beneventano, si assegnano al padrone tre mesi di tempo a cercarlo, mentre due mesi solo gli si concedono se è fuggito nella Tuscia, ed un solo se nelle terre al di qua dell’Appennino [2]. La seconda poi vieta sotto pena di morte e di confisca lo spedir messi senza licenza del Re nello Spoletano e nel Beneventano, non meno che a Roma, a Ravenna, in Francia, in Baviera, in Alemagna, nelle Rezie e nell’Avaria [3]; ed equiparando con ciò a questi Stati stranieri o nemici i due Ducati Longobardi, offre appunto un argomento fortissimo a mostrare come lo stesso Re li trattasse come due Stati indipendenti anziché come due provincie del regno. [tratto dal capitolo I dello scritto “L’ultimo dei Re Longobardi” pubblicato su “La Civiltà Cattolica”, Roma 1862] NOTE:
È l’attività legislativa a fornire la misura dell’autocoscienza della regione che i cronisti bizantini del IX secolo definirono “Langobardia minore”, per distinguerla da una “maggiore” rappresentata dal vecchio corpo settentrionale del regno. […] Certo, è del tutto falsa l’idea di un “residuo” di Longobardi rifugiati al sud. Longobardi, e longobardizzati, ce n’erano un po’ dappertutto in Italia. Quella che era sopravvissuta al sud era piuttosto una formazione – prima unitaria, poi (dall’849) frazionata nei tre centri di Benevento, Capua e Salerno – che rivendicava integralmente, per bocca dei suoi principi e della sua aristocrazia, l’eredità politica del regno. Un’eredità che era essenzialmente legislativa.
Egualmente dannosa per la storia longobarda fu l’indipendenza dei due granducati di Benevento e Spoleto, sostenuta con ogni mezzo da Roma. Importante fu anche il fatto che tali territori, conquistati solamente sotto Liutprando e Astolfo, non furono mai inseriti saldamente nel regno. [tratto da Jörg Jarnut, Storia dei Longobardi, Einaudi 2002]
La vecchia Gens Langobardorum, anticamente guidata alla conquista da Wotan, il cui culto costituiva l’architrave della cultura tradizionale tribale, di schietta configurazione militare, risultava trasformata nella Langobardia meridionale del IX-X secolo, in un’élite di proprietari fondiari, cattolici, che hanno completamente cristianizzato le ragioni stesse della loro vicenda storica e del loro predominio sociale e militare. Proprio nel sud, dove l’autonomia politica longobarda durò ben più a lungo che nel nord, si era completato quel processo di radicale trasformazione delle strutture sociali (e culturali) dei Longobardi che nell’Italia padana era rimasto interrotto e alterato dal sovrapporsi, dal 774, della dominazione carolingia. [tratto da Claudio Azzara, Le tradizioni militari della Longobardia meridionale, 2001]
Certamente nell’anno 1000 i Pugliesi erano abbastanza cosmopoliti: il cronista normanno Guglielmo di Puglia, per esempio, parla di un incontro sul Monte Gargano tra Melo, un ribelle esiliato di Bari, e un gruppo di cavalieri normanni, appena tornati dalle crociate. Melo è descritto come un cittadino libero, longobardo di nascita, vestito alla greca, ma con un turbante in testa. […] Tutte queste fonti continuano a parlare di Longobardi, anche se la separazione del principato di Benevento aveva rimosso ogni vestigia di unità etnica. Ma i Longobardi erano ormai “italiani” nei costumi e nella lingua: non a caso il Chronicon Salernitanum menziona una «lingua germanica parlata dai Longobardi molto tempo prima».
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